Monografia «Leonardo Spreafico»
Premessa di Roberto Sanesi
...il suo scontro veemente con le dissonanze e con gli sgarri acidi del colore è un modo di incontrare tra il blu e il giallo i suoi rosa delicati, i suoi teneri verdi mentalmente acquisiti...
Alfonso Gatto

Non essendomi mai accaduto di incontrare, in arte, orfani di maestri, più o meno diretti e riconoscibili, inconsapevoli o perfettamente ragionati, ed avendo la presunzione di sapere, tuttavia, di quale scarsa importanza possano essere alla definizione di una personalità, poiché dei maestri conta l'uso, non la presenza biografica, ritengo più appropriato non insistere sui nomi di Pio Semeghini, di Arturo Martini, di Marino Marini o Raffaele De Grada. Storicamente ineccepibili alle origini di un pittore come Leonardo Spreafico, ciò che vi hanno potuto lasciare è la serietà di un impianto, l'insistenza sull'esercizio anche tecnico, la solidità di un impegno tutto sulla pittura — ma, a ben guardare, assai poco di definibile quale reale influenza (che è talvolta la giustificazione dell'epigono); e per tanto preferisco, pur con tutta la vaghezza dell'avvicinamento poetico, la citazione di Gatto, nella quale, a dispetto dell'atteggiamento massimamente descrittivo e sensoriale, si intuiscono due delle componenti fondamentali del pittore lombardo, la tenerezza lirica e quel tanto di controllo mentale, di ragionata meditazione sul « fare » (sul linguaggio), che sposta Spreafico da un'area di tonalismi e sensibilizzazioni materiche ai limiti di una spuria figurazione a una area di libere trasposizioni fra reale e sognato, visto e pensato, con accentuazioni coloristiche del tutto autonome, e che lo colloca in una storia europea. Caso mai c'è, nascosto fra le parole di Gatto, un sospetto di allusione (indiretta) a lontane suggestioni divisioniste — in apparenza forzata, ma forse non assurda, comunque da provare come ipotesi di certi èsiti; così che poi il raccordo, da non scartare, con una pittura fra impressionismo e tentazioni di decadenza, liberty e felice astrazione naturalistica risulterebbe tanto inatteso quanto sostenibile.
Certo mi sto riferendo soprattutto alle opere del dopoguerra, quelle dove « la inversione di marcia rispetto al Novecento », secondo quanto afferma Volonterio nel suo saggio impegnato e minuzioso fondato sull'analisi del linguaggio creativo e delle sue strutture, trova un suo sbocco stabile e personale, una libertà e una freschezza rarissime nell'ambito del cosiddetto neo-naturalismo lombardo. E che tuttavia non si spiegherebbe come risultato di un percorso coerente se alle spalle non riconoscessimo l'intransigente avversione all'accademico e al celebrativo malgrado alcune assonanze con una pittura contemporanea (durante gli Anni Trenta) dall'impianto monumentale fra pseudoromanità e finta composizione di gruppo arieggiante al rinascimentale, valendo in Spreafico una più aperta lezione cézanniana già filtrata da irrequietezze d'origine più lontana e diversa (magari Moneti ed ecco l'equivoco a proposito di eventuali tensioni informali; o perfino un primo Boccioni), risolta nella relazione unitaria forma-colore, tanto che la solidità plastica delle figure sarà presto osservata con reticenza per il rischio di una sua possibile staticità inespressiva e levigata vuotezza, ma non del tutto negata. Anzi utilizzata per dar corpo a una visione dinamica che rifletta in sé anche il metodo della sua apprensione, affinché la forte sensibilità cromatica, che gli è caratteristica, non debba sfarsi in superficiale suggestione, e invece reggersi, piuttosto, ai limiti del detto e non detto, dove il « non detto » mantenga comunque una concretezza, non perda il suo peso oggettuale, e l'impulso creativo (quella gestuale apparenza d'improvvisazione che si rileva in certe nature morte, in certi paesaggi) si riveli controllato.
Ma prima si assiste a un mutarsi, lento e però costante, della stessa consistenza plastica degli oggetti, delle figure, e a uno spostamento verso un « racconto » sempre più allusivo, con minore preoccupazione del dettaglio a favore degli elementi protagonisti di un tema annunciato. Per esempio in un'opera come Le confidenze di Venere (1937), di chiara provenienza, gruppo e soggetto quasi codificati, la contaminazione temporale evita l'ovvietà, essendo data dall'intrusione nella scena di inattese componenti contemporanee, mentre l'ambientazione è trattata con qualche accuratezza, pur non dissimulandosi la scansione coloristica « fauve », primo indizio di ciò che avverrà più tardi. Diversamente, ne Le statue (1938) già si avverte qualche indifferenza per il luogo dell'evento, e ciò che conta, con le masse dei gruppi teatralmente disposte, è la tonalità generale, di notevole suggestione, del racconto, che tende al metafisico.
Da cui l'ambiguità della restituzione di un oggetto che si sa essere in natura, che si vuole mantenere « in natura », ma non naturalisticamente osservato e riprodotto. Per cui non sarà da sottovalutare, in questo, l'apporto della sua netta qualità di disegno, che resta segreto e sicuro anche all'interno di immagini coloristicamente dirompenti, un disegno essenziale, chiaro; e che permette all'artista, senza rischi di cadute in allucinazioni di troppo facile presa emozionale, perfino incursioni nell'oni¬rico, nel visionario, ai confini di una pastosa surrealtà.
Il che avviene non tanto nei teneri e sognanti soggetti dei clowns e dei nudi di donna (poi più aggressivi, stridenti, accesi), dove il tratto ha una consistenza compositiva di continuum e di essenzialità trasposta di peso e con identico effetto nelle opere di maggior impegno corrispondenti, quanto in certe carte a inchiostri grassi, di campiture larghe, intense, irrequiete, non informali ma sicuramente più libere, in un tentativo di restituzione talvolta vicino alla gestualità pura. Ed è qui che si sentono correlarsi maggiormente impulso e controllo, facendosi più aperto e comprensibile lo scambio forma-colore.
Mi sembra tutta da rivedere la convinzione che Spreafico sia un pittore di puri abbandoni dionisiaci, di fughe nel sensuale, per quanto in effetti emergano dai suoi bestiari bizzarri, dai suoi improbabili giardini da favola (ma anche, talvolta, con irridente travolgimento, di liberazione, da « family life »), più le connotazioni di una felice e prorompente natura naturans che le intricate e psicologicamente paludose immersioni in un inconscio esistenzialisticamente turbato.
Per quanto ormai catalogato, con qualche ragione, nell'ambito di un lombardismo tonale di acque e di terre, la sua vocazione e i suoi risultati ultimi — con partenza impressionistica, con accenni di divisionismo e simbolismo e post-liberty generico — mantengono una sostenuta e riconoscibile autonomia. In lui il problema della luce, della sua funzionalità, è fortissimo: luce come colore, come « oggetto », come struttura portante e infine come soggetto se, come appare perfino ovvio, non si assiste a distinzioni di questo tipo, neppure nella costante frammentazione, quasi da mosaico, con cui spesso la totalità della figura si presenta.
Citando ancora Volonterio: « raggiungere il senso della dinamica all'interno della massa statica », « una rotazione di colori-cose e di forme-colore, che ingrandisce le dimensioni, fa combaciare il particolare col tutto ». Un tipo di apprensione del reale già spinta verso esiti che esaltando il simbolico non negano l'avvio dal naturale visibile, lo mantengono all'interno; e nello stesso tempo una evidenziata consapevolezza del metodo, non poche volte dato quale soggetto stesso dell'opera attraverso tale metodo raggiunta. La calma acquisizione mentale suggerita da Gatto è testimoniata da questa coincidenza di modelli, che assomigliano a se stessi ma non si rappresentano, e di metodo di rappresentazione, classificatorio e selettivo in vista di un superamento d'ogni inganno naturalistico.

Roberto Sanesi

(dalla monografia "Leonardo Spreafico" edito da Silvana Editoriale d'Arte, Milano, 1977)